Barbara è una viaggiatrice. Ama viaggiare con il suo zaino in spalla facendo autostop. Attraverso il suo profilo instagram ( @viaggiare_a_piedi_scalzi ) racconta i suoi viaggi, le situazioni che vive e le riflessioni che caratterizzano le sue giornate.
Oggi, una donna come lei è vista come una coraggiosa che sfida la sorte e noi abbiamo avuto il piacere di chiacchierare con lei e chiederle, fra le tante cose, cosa ne pensa a riguardo.
Di seguito trovate una parte dell’intervista, la seconda parte andrà a finire in un progetto, per il momento top secret, di cui vi parleremo prossimamente.
Buona lettura!
Parlaci di te: Quanti anni avevi quando hai messo per la prima volta uno zaino in spalla e sei partita da sola? Come finanzi i tuoi viaggi? Qual è il tuo lavoro quando non hai lo zaino in spalla?
«Cambridge, 17 anni, la classica vacanza per studiare l’inglese.
In quel periodo ero adolescente e, a Bologna, avevo un gruppo di amici molto unito, direi quasi impermeabile all’esterno; mi son trovata sola, in un altro Paese, con la mia host che mi lasciava totale libertà, in mezzo a coetanei di tutto il mondo e quindici giorni dopo, al ritorno, mi sono sentita diversa, ero uscita dal guscio scoprendo di poter stare bene con chiunque.
Da adulta, invece, il primo grande viaggio in solitaria consapevolmente tale è stato a 28 anni, dopo il passaggio di Saturno che mi ha completamente rivoltato la vita. Ho cercato il viaggio come occasione per stare “un po’” con la mia nuova me: da Bologna, ho raggiunto Genova poi, via terra, ho proseguito per la costa francese e spagnola, fino a raggiungere in nave il Marocco e, da lì, volare in Kenya per trascorrere un periodo con una Ong.
Ho una formazione come assistente ed educatrice sociale, ho lavorato dal 2008 in questo ambito prevalentemente a contatto con situazioni di grave disagio ed emarginazione sociale e così mi sono finanziata i viaggi che ho fatto finora.
Il nome del tuo profilo instagram: che cosa significa e a che cosa alludono i piedi scalzi?
«Al contatto con la terra e con il contesto che visito. Cerco di stare attenta al luogo in cui mi reco ed a non essere invadente, per quanto possibile, in termini ecologici, ambientali, ma anche sociali. Cerco l’incontro con la popolazione e di sentirmi a casa ovunque. Viaggio in modo lento, preferisco vedere poco ma con calma prendendo piccole abitudini locali, ritornando nei posti più volte, familiarizzando con i locali.
Scalza, senza barriere, senza filtri, con meno distanza possibile, sempre con attenzione, certo, ma scalza, con grande fiducia».
Com’è nato il tuo progetto, qual è stato il giorno zero, l’evento o la persona scatenante e quanto breve o lungo è stato il “periodo di incubazione”? Come si è evoluto nel presente e come vedi il futuro di Viaggiare a piedi scalzi?
«È stata una lunghissima gravidanza! Ho iniziato a pensarci nel 2016 ed è rimasto in gestazione per tre anni “Bologna/Lampedusa senza soldi.” Come tutte le cose “giuste”, che ci appartengono davvero, mi è tornato a trovare diverse volte. Gli stimoli sono stati diversi: dallo shock per il decreto Minniti prima, alla necessità personale di reagire a quello di Salvini poi, a storie di altri viaggiatori, alla mia decisione di lasciare il lavoro, fino alla morte improvvisa di una amica di amici, quella è stata la scossa finale. Ho iniziato a chiedermi se realmente stessi facendo tutto il possibile per essere felice.
A quel punto, il viaggio ha preso il sopravvento e ho deciso di partire.
“Viaggiare a Piedi scalzi” è nato come uno spazio in cui raccontare le evoluzioni e le storie dei miei viaggi, in particolare nel Mediterraneo, mia terra prediletta, e sul Marocco, paese in cui mi sento a “casa” ma che, purtroppo, tutt’ora, è vittima di pregiudizi soprattutto per una donna in viaggio da sola.
Adesso, intendo unire la mia esperienza decennale nel campo dell’educazione e dei servizi sociali con la passione per il viaggio facendo sì che “Viaggiare a piedi scalzi” diventi un contenitore di progetti aventi “lo zaino in spalla” come strumento evolutivo ed educativo.»
Quando abbiamo conosciuto il tuo profilo, l’associazione con il progetto di Pippa Bacca è stata immediata. È corretto avvicinare la vostra missione? Ti senti in qualche modo di portare avanti la sua eredità?
«Intanto grazie, perché mi sembra uno dei più bei complimenti che mi sian stati fatti. Provo stima e riconoscenza nei confronti del lavoro di Pippa. Non mi sono ispirata a lei per il viaggio intrapreso in primavera, ma proprio un commento ricevuto da una conoscente a pochi giorni dalla partenza – “Occhio, che di troppo entusiasmo qualcuna c’è morta in Turchia”- e l’incontro con una fotografa appassionata di pellegrinaggi ed un’amica vagabonda solitaria hanno messo le basi per un nuovo progetto.
“Libera Come una Donna” sarà il cammino di tre donne ed un abito da sposa, che, lungo la via Francigena, parleranno e si interrogheranno, sulla libertà di movimento delle donne, in Italia, nel 2019. In seguito, verrà costruita una mostra fotografica itinerante….e chissà cos’altro!»
Hai sempre viaggiato da sola? Se sì, perché? Se no, cosa ti ha fatto cambiare idea?
«Ho iniziato a viaggiare consapevolmente da sola nel 2015 e ho continuato a farlo perché è il mio strumento di evoluzione personale preferito. Non viaggio sola: viaggio con me!
Ho il tempo e la libertà di seguire i miei ritmi, i miei gusti; socializzo di più con le persone del territorio, sono più curiosa.
Mi capita di viaggiare con altre persone, ma è più raro e comunque sono esperienze diverse da quelle che farei da sola, né meglio, né peggio, ma molto differenti».
Le donne sono sempre vittime di stereotipi, soprattutto nel momento in cui decidono di affrontare delle sfide diverse dal solito. Una donna che viaggia da sola (ma anche in compagnia), facendo autostop, viene vista male dal popolo del “se l’è cercata”. Cosa ne pensi a riguardo? Quali sono gli stereotipi contro cui ti sei scontrata? E come ti sei comportata? Qual è stata la tua risposta?
«Una delle mie paure, alla partenza, era proprio questa. Temevo mi accadesse qualcosa di brutto e sapevo che a livello “sociale” sarei stata doppiamente aggredita con il classico “se l’è andata a cercare”, commento che trovo denigrante e che soprattutto sposta la responsabilità lontano da chi ha agito in maniera scorretta.
Ho accettato più di 50 passaggi, nella maggior parte dei casi di uomini, e quasi ogni volta mi è stato detto “Di questi tempi, una donna da sola, non hai paura?”.
Ho sempre risposto affermativamente ed in effetti, sì, all’inizio avevo paura, [in realtà non tanto delle aggressioni quanto del viaggio stesso e dei cambiamenti che avrebbe portato nella mia vita.
Ho ricordato, ad ogni conducente, che la maggior parte dei maltrattamenti sulle donne avviene in ambito famigliare o amicale; in Italia abbiamo certamente un problema di violenza di genere ma 8 volte su 10, non sono Gli sconosciuti a farci del male!
È una buona notizia da un lato, ma dall’altro questo vuol dire doversi prendere delle responsabilità ed agire un cambiamento culturale. Significa impegno per ogni cittadino, cittadina e per le istituzioni.
Collegato a questo argomento, ritengo ci sia anche una mistificazione strumentale della realtà: attribuendo il pericolo all’esterno, si induce le donne a pensare che solo in una situazione conosciuta ci si possa sentire davvero sicure favorendo, ulteriormente, un distaccamento dal “mondo” nell’ottica di un sistema patriarcale e capitalista che isola gli esseri umani, li separa e li “imbottisce” di falsi miti, bisogni fittizi e paure, li manipola e li rende gestibili.
Spesso infelici, ma gestibili.
Quando incontro i ragazzi e le ragazze nelle scuole, spesso dedico tempo a questo tema: voglio che questo viaggio sia un simbolo di emancipazione umana, prima ancora che femminile, dagli stereotipi, ma una attenzione in particolare la dedico alle giovani, a trasmettergli un messaggio positivo.
Si può fare.
Potete fare tutto ciò che desiderate».
Potresti riprendere la riflessione di una tua story di IG sul tema dello sconosciuto? Secondo la tua esperienza chi è uno sconosciuto e di chi dovremmo avere paura?
«Una delle domande alla base di questo viaggio è: “Abbiamo così bisogno di avere paura dello sconosciuto?”
Socialmente, era l’ignoto è il migrante, nero, uomo, musulmano, africano, arrivato per mare; avendo lavorato molto con persone straniere non mi riconosco in questa paura: per me chi viene da fuori è la mia zona di comfort.
Dopo aver deciso di lasciare un lavoro che per quanto “sicuro” non rispettava davvero i miei principi e la mia autenticità, mi son trovata al bivio e la paura dell’ignoto, oltre a quella della mancanza di denaro, mi ha assalito.
Cosa ne sarà di me?
Di cosa camperò?
Per me lo sconosciuto non è quello che ci viene attualmente indicato tale (e che ogni decennio, infatti, cambia) ma il futuro, affrontato senza quelle basi che avevo sempre ritenuto fondamentali: un lavoro, una casa, la coppia».
Tante ragazze hanno paura di viaggiare da sole, un po’ per i svariati fatti di cronaca, un po’ perché non riescono a sbloccarsi e affrontare questa esperienza in solitaria o attraverso mezzi di fortuna. Cosa diresti ad una ragazza così? Quale consiglio daresti?
«Le direi che siamo molto di più di quello che pensiamo di essere.
Ogni volta affronto un cambiamento temendo di non essere abbastanza, comprendo la paura, il senso di inadeguatezza. Non siamo quasi mai incentivate ad andare oltre, a ricercare veramente la nostra strada, non ci viene mai chiesto cosa ci rende felice.
Non è facile, ma viaggiare da sole è un bel modo di conoscersi e di mettersi alla prova.
Infine, le consiglierei la piattaforma ed il gruppo fb “Viaggio da Sola perché” di cui sono orgogliosamente una delle moderatrici e redattrici, lì può trovare molte informazioni ed ispirazione!»
Cosa comporta essere una viaggiatrice nella vita quotidiana e nei rapporti interpersonali?
«Viaggiare mi ha permesso di evolvere umanamente, di diventare, sempre di più, un po’ più “ME” e questo ha fatto sì che mi allontanassi da persone meno affini per ritrovarmi con anime più in linea.
Quando faccio viaggi lunghi, mi rendo conto che si rafforzano, paradossalmente, alcune amicizie, nonostante la lontananza fisica, vince quella emotiva, anche grazie ai tanti supporti tecnologici che ora possiamo utilizzare.
Quando sono ferma, invece, cerco di portare il viaggio nel mio quotidiano, tramite le ricette apprese all’estero, le abitudini, lo studio magari di una lingua straniera, la lettura di alcuni libri, elementi di arredo…
È tutto un viaggio, la Vita».
Parliamo di autostop e parità di genere da un lato e di autostop e sorellanza dall’altro (per inciso: quale significato ha per te il bracciale rosso che porti?): ci ha colpito la story sulla scarsità di donne che ti hanno offerto passaggio. C’è paura, diffidenza, incomprensione, mancanza di empatia?
«Intanto sì, il bracciale rosso rappresenta la sorellanza: questa solidarietà del tutto femminile ed è bellissimo intercettare “sorelle” in giro per il mondo, reale e virtuale.
È stato doloroso perché su circa 50 passaggi, solo 5 erano di donne, e due di queste volte le conducenti non erano italiane.
Intanto, trascorrendo molto tempo in strada, si nota che le donne guidano meno degli uomini, almeno nelle strade extraurbane.
Ho compreso che se fa paura chiedere passaggi per eventuali aggressioni, la stessa sensazione ce l’ha chi li offre, ancora di più, evidentemente, se donna.
Purtroppo, più scendevo verso sud, se da un lato l’accoglienza si faceva sempre più calorosa nell’ospitarmi o trasportarmi dopo avermi conosciuta, lungo la strada era sempre più facile osservare sguardi astiosi o giudicanti da parte di donne alla guida, o ancora peggio, passeggere.
Il messaggio che mi arrivava era “Te la stai cercando”.
È stato molto doloroso riceverlo, soprattutto da altre donne e voglio pensare che, probabilmente, erano solo molto stupite di trovarsi davanti una figura tanto strana (donna, con lo zaino, autostop) più facile da tenere distante e giudicare, più che avvicinare con curiosità e conoscere».
Dalle tue foto e dalle parole che dedichi, ci sembra che il rapporto con Lampedusa sia quasi carnale: lacrime e sangue, dolore ma anche bellezza: è così? Proveresti a descrivere l’isola per te?
«Lampedusa è la terra dei contrasti.
Per anni, ho evitato di recarmici, nonostante la curiosità, perché temevo la sua potenza, il suo essere, simbolicamente “un luogo di morte”.
Con la sua sfacciata bellezza, mi ha insegnato che quell’acqua è morte tanto quanto vita, che quelle onde, le stesse onde in cui migliaia di esseri umani hanno trovato la morte, sono state fondamentali per accompagnare, sulla terra ferma, altre persone, le stesse poi che io ho conosciuto per lavoro e di cui ho cercato di prendermi cura.
A proposito di stereotipi, Lampedusa per me è un simbolo, ma non d’accoglienza, bensì dei confini che così legiferati diventano assassini per chi nasce al di là delle righe tirate dal neocolonialista bianco; dico “non d’accoglienza” perché il tema è molto complesso e complicato.
Sullo scoglio più bello del Mediterraneo, ci sono delle grandi incoerenze e molti problemi, che alla tv non vengono mai citati, come la mancanza di infrastrutture fondamentali per i cittadini, la militarizzazione del territorio (su cui scrive approfonditamente il Collettivo Askavusa), la presenza di numerosi radar e l’aumento di malattie oncologiche, un turismo di massa privo di attenzione e cura per il territorio, abusivismo edilizio, sfruttamento sul lavoro nella stagione estiva… potrei proseguire oltre.
Lampedusa m’ha insegnato ad amare nonostante tutto.
Quando riparto, ogni volta dalla prima, so che ritornerò, non posso fare altro».
Pina & Chiara
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