Nella storia, almeno in Occidente, sono mai esistite donne che hanno avuto, o magari scelto, un destino alternativo al matrimonio, al monacato e alla prostituzione? E se ci sono state, si è trattato o no di eccezioni? Il libro, documentatissimo e piacevole da leggere, di Valeria Palumbo, Piuttosto m’affogherei. Storia vertiginosa delle zitelle, prova a dare risposte a queste domande, e ne dà di sorprendenti. Ma andiamo per ordine. Il libro si apre con una spiegazione del significato del termine “zitella”, oltre che del greco parthenos, che significano entrambi “ragazza non ancora sposata” e quindi sono stati associati per secoli alla gioventù più che alla verginità. L’associazione del concetto di “zitella” con la vecchiaia iniziò tardi, nell’Ottocento.

Dopo il mondo greco e romano e un simpatico capitolo dedicato al mondo dei fumetti e delle fiabe, Palumbo ci racconta che le donne nubili, secondo alcuni studi, avrebbero rappresentato una percentuale significativa della popolazione femminile in Europa tra il XIII e il XIX secolo, e con un picco nel Seicento, nonostante la Controriforma. L’invisibilità delle donne in questi secoli rende impossibile comprenderne i motivi: l’unica sicura è che non dipese da una mortalità di massa degli uomini. Comunque ci si può fare un’idea della vita di queste zitelle dell’epoca: chiuse in casa e dedite ai lavori domestici, almeno fino alla quarantina, quando potevano uscire almeno per dedicarsi alle opere di bene, non essendo più considerate a rischio di suscitare tentazioni negli uomini. Ci furono però anche donne che misero in pratica, individualmente o collettivamente, modi di vivere alternativi. Le comunità religiose informali al femminile nacquero a Roma nei primi secoli del cristianesimo (i cenobi) e furono create da donne che riunivano “almeno quattro caratteristiche: capacità finanziaria, forte connessione con altre donne, autonomia di scelta, alto livello di istruzione”. A queste seguirono le comunità di beghine nel Medioevo e di Stiftsfräulein (un termine ambiguo, che “sta tra educanda, canonichessa e zitella”) all’epoca della Riforma protestante, che portò alla chiusura dei conventi e alla fine dell’opportunità delle donne di occupare lo spazio pubblico. A Venezia, a partire dal Cinquecento, furono fondati degli orfanotrofi, chiamati Ospedali, dove si studiava la musica con insegnanti come Vivaldi e le allieve formavano un coro, un’orchestra e potevano anche diventare compositrici. Erano libere di lasciare l’Ospedale una volta cresciute, ma spesso restavano, potendo avere l’opportunità di una vita molto più soddisfacente (e lunga!) di quella delle donne sposate. Venezia è anche la città di Moderata Fonte (pseudonimo di Modesta Pozzo de’Zorzi, 1555-1592), autrice del dialogo Il merito delle donne, da cui è tratta la frase che dà il titolo al libro. La pronuncia Leonora, la padrona della casa in cui si svolge il dialogo, vedova, rispondendo alla domanda se si risposerebbe o no.
Nel capitolo “Corona e talamo”, dedicato alle regine che scelsero di rifiutare il matrimonio, Palumbo ci parla, oltre che di Elisabetta I d’Inghilterra, anche di due regine meno note: Cristina di Svezia (1626-1689), apertamente omosessuale, che rinunciò al trono pur di non essere costretta a sposarsi, e la zarina Elisabetta, figlia di Pietro il Grande e predecessora di Caterina II. Entrambe furono donne di grande cultura, amiche degli intellettuali più importanti della loro epoca e protettrici delle arti.
Dopo un capitolo dedicato alle scienziate, a partire da Ipazia per arrivare a Gertrude Bell (1868-1926), la prima donna a laurearsi con il massimo dei voti a Oxford, esploratrice ed intellettuale eclettica, il libro arriva ai secoli in cui la figura della zitella comincia ad acquisire visibilità e caratteristiche positive, soprattutto grazie alle donne scrittrici, a loro volta quasi tutte nubili. Oltre alle grandi scrittrici inglesi e americane, Palumbo cita anche Louisa May Alcott, autrice di libri molto più trasgressivi e interessanti di Piccole donne, che esaltò più di una volta il nubilato nelle sue opere. Anche lei zitella, vedeva in questa condizione la possibilità di essere libere e di rendersi utili al mondo. Sempre negli Stati Uniti vide la luce il primo personaggio letterario di zitella allegra e sexy: Lily Talbert, creata dalla scrittrice Mary Eleanor Wilkins Freeman per il romanzo collettivo The whole family, pubblicato su Harper’s Bazar (“che allora si scriveva con una ‘a’ sola”) nel 1906. Palumbo paragona la coscienza di sé delle scrittrici anglosassoni con quella delle loro contemporanee italiane, citando autrici note come Matilde Serao e Ada Negri e altre dimenticate come Clotilde Scanabissi, autrice del romanzo Ricordi di una telegrafista (pubblicato nel 1913 senza successo, ma ripubblicato da Einaudi nel 1975) e conclude che il Leitmotiv delle scrittrici italiane che parlano di zitelle è la solitudine. Anche nei loro saggi e articoli, le stesse scrittrici che conducevano una vita non convenzionale criticavano le donne che non si sposavano, e fa sorridere che le autrici di galatei (perfino negli anni Sessanta del secolo scorso!) riconoscessero che le zitelle erano libere, mentre le donne sposate no, ma solo indirettamente e senza avere il coraggio di arrivare alla conclusione logica: che le donne stanno meglio se non si sposano. “Noi donne non vogliamo, e forse non possiamo più, accontentarci”: scrive Palumbo nelle conclusioni. E’ vero, e soprattutto abbiamo bisogno di inventare, o reinventare, aiutate dalla conoscenza del passato che libri come questo ci forniscono, nuove forme di convivenza.
Irene Starace