Era il 5 febbraio 1445, un venerdì, quando Agata Smeralda fu deposta, prima bambina, nella “pila”di pietra che costituiva il passaggio obbligato per l’accoglienza dei fanciulli abbandonati del nuovo Spedale degli Innocenti a Firenze. Nonostante le cure, la piccola visse solo pochi mesi, portata via da una delle tante malattie che erano causa dell’alta mortalità infantile del tempo.
L’antico fenomeno dei bambini abbandonati viene segnalato già con una certa regolarità a partire dal 1200 – 1300: si presuppone che nei secoli precedenti fosse sostituito da altre forme di pianificazione familiare… quali l’infanticidio.
A partire dal 1200 i bambini, precedentemente abbandonati in prevalenza presso i monasteri, vengono accolti nelle prime istituzioni ospedaliere cittadine. Ma è nel 1400 che vengono costruiti, come accadde a Firenze, i brefotrofi specializzati nella cura dei piccoli.
Lo Spedale degli Innocenti di Firenze fu realizzato su progetto del Brunelleschi, grazie a un lascito di 1.000 fiorini del mercante pratese, Francesco Datini, dagli introiti successivi di singoli benefattori e principalmente dall’Arte della Seta. Il primo anno furono accolti 90 bambini abbandonati nella conca di pietra, la “pila”, accanto alla quale fu sistemato dopo i primi mesi, un Presepe a grandezza naturale, in terracotta robbiana, dove il trovatello, piccolo Gesù vivente, completava la scena della Natività.
Lì, nella “casa de’ putti”, i bimbi abbandonati venivano nutriti, accuditi ed educati. Dal rinascimento a oggi di bambini dalla pila fiorentina ne sono passati a migliaia: non esiste un conto certo ma si stima siano stati almeno cinquecentomila, in maggioranza (a seconda delle epoche anche fino al 70%) femmine, considerate una bocca in più in famiglia invece che, come i maschi, una ricchezza di braccia da lavoro.
I registri di questi antichi istituti sono una fonte preziosa per penetrare nella vita quotidiana degli emarginati. A Firenze i libri del “baliatico” (i bambini dati a balia) sono veri e propri verbali dell’abbandono con indicazioni del giorno, dell’ora, del sesso del bambino, la descrizione delle pezze di lana e di cotone che lo avvolgevano; delle monete spezzate a metà utili a un possibile riconoscimento futuro; delle raccomandazioni scritte che ne volevano garantire una migliore accoglienza, sino all’indicazione della presenza o meno fra le fasce dei grani di sale: alimento all’epoca prezioso, che denunciava, se presente, lo stato di bambini non battezzati a cui si poneva subito rimedio con l’imposizione del Sacramento. Infine veniva aggiunto il nome, località di residenza della balia e il suo salario.
All’epoca, la sorte degli orfanelli era comunque segnata e non molto differente dagli altri coetanei rimasti in famiglia: la morte li accomunava per oltre il 50% dei casi. Se sopravvivevano all’affidamento alle balie per la durata dell’allattamento e dello svezzamento, il destino poteva anche essere benevolo: sposate o monacate le bambine, avviati al lavoro presso artigiani e contadini i bambini, preferiti dalle famiglie in cerca di prole a cui lasciare affetti e denaro.
In realtà solo i maschi venivano licenziati dallo Spedale alla maggiore età: le femmine non adatte al matrimonio o al convento (spesso non erano ben accette) finivano per ritrovarsi carcerate a vita nella struttura. L’incentivo della dote che il brefotrofio metteva a disposizione di ogni ragazza, infatti, non sempre riusciva a colmare le diffidenze verso le trovatelle che difficilmente potevano aspirare a sposarsi. Più spesso erano destinate ai lavori agricoli in campagna, anche in aree geografiche molto distanti da Firenze, dove, non di rado, le Nocentine cercavano di tornare, in fuga, scacciate e spesso violentate dai padroni.
Esiste uno studio, basato sulle annotazioni di uno dei tanti libretti, che riguarda proprio le violenze sessuali che videro come vittime le Nocentine dal 1698 al 1747. Sul registro vennero registrate le sorti delle fanciulle, il luogo e gli attori della violenza che non sempre veniva poi giudicata in un processo. Si tratta di 151 casi di stupro per i quali si arrivò al processo solo se la violenza era a danno delle ragazze vergini. Di queste il 50% delle violentate approdò al matrimonio (nel 73% dei casi con gli stupratori stessi, mentre il 27% colse di lì a breve altre occasioni rese possibili dalla dote). Del rimanente 50% delle Nocentine violate il 38% usufruì di una dote ma non sappiamo se venne o no utilizzata perché la memoria del libretto si esaurisce.
L’analisi dei processi per stupro ci apre inoltre le porte a una visione cruda della vita di queste fanciulle. Nelle case dei contadini partivano molto presto la mattina per andare a sorvegliare il bestiame e rientravano la sera tardi per compiere, ancora, lavori faticosi. Spesso stanche si addormentavano in aperta campagna, di giorno, affamate e vestite di stracci, mentre sorvegliavano il bestiame: venivano così assalite, lì nei campi, da servitori o da ex soldati, anche se nella realtà dei fatti, si legge, il 66% delle violenze avveniva in casa la notte, in assenza delle mogli che andavano fuori a trovare qualche parente: la promiscuità dei locali e i letti condivisi con gli altri componenti della famiglia le rendeva facili prede della rustica brutalità dei padroni.
Fu il caso di Maria Teresa, violentata in una notte d’estate del 1722 dal figlio del padrone per cui lavorava come garzona. Negli atti del processo si legge che il ragazzo “entrò spogliato nel suo letto” dopo due anni di “scherzi, cioè pizzicotti e mani sul seno”. Maria Teresa, rimasta incinta, non denunciò in principio il ragazzo per paura, e dichiarò che “era stata affrontata nel bosco mentre faceva la frasca”. Tuttavia al processo finì per affiorare la verità ma il padre del ragazzo si oppose fortemente al matrimonio perché si legge negli atti “anche il figlio di un contadino può pretendere di meglio come moglie” ossia di una ragazza che fosse qualcosa di più di una Nocentina, considerate evidentemente alla stregua di piccole schiave.
Bibliografia:
“Istituzioni, assistenza e religiosità della società tra il XVIII e il XIX secolo” a cura di G. Da Molin, Cacucci Ed. 2009.
“Il diritto di essere bambino” a cura di francesca Mazzucchelli, Franco Angeli ed. 2008.