Il silenzio dei violini

I violini smettono di suonare, il fuoco si spegne, il canto cade nel fango. Una parola aleggia nell’aria, spettro dimenticato, quasi impercettibile, solitario. Porrajmos.
Così viene chiamato il genocidio nazista di Rom e Sinti.
Porrajmos, che in romanes significa letteralmente “grande divoramento”, altrimenti detto Samudaripen, “tutti morti”.
Un termine semplice, ricoperto di polvere e amnesia. Facile da dire, ma, a quanto pare, difficile da ricordare.

Fino agli anni Sessanta, quando storici e studiosi come Miriam Novitch iniziano a interessarsene, il Porrajmos non viene classificato come persecuzione razziale al pari di quella ebrea. Anzi, si può dire che non venga proprio classificato: la questione viene liquidata al silenzio e i morti, senza nome e senza volto, sotterrati insieme agli altri, ridotti a numero scarno, a fredda statistica.
Quando, poi, si iniziano a raccogliere le prime testimonianze e a recuperare i documenti riguardanti tale persecuzione, l’opera di oblio messa in atto da stampa e media non si ferma. Seppur oggi si riesca a ricostruire in modo più lineare e meno frammentario la vicenda di Rom e Sinti durante la Seconda Guerra Mondiale, è ancora difficile parlarne, togliere il velo d’abisso a questa storia.
E lo è ancora di più in Italia, dove certamente le politiche sempre più xenofobe e razziste non aiutano e dove si registra, ancora adesso, il più alto livello di discriminazione nei confronti di queste minoranze etniche (che, tuttavia, sul territorio italiano costituiscono soltanto lo 0,02 % della popolazione totale ed è, quindi, insensato, oltrechè controproducente, parlare, come si è troppo soliti fare, di ‘invasione rom’).
Ma dovrebbe proprio essere il nostro Paese uno dei primi a parlarne, dato che proprio qui, in Italia, il Porrajmos ha trovato uno dei terreni più ‘fertili’ per la sua attuazione effettiva.

La popolazione Rom e Sinta viene vista con diffidenza, in tutta Europa, fin dall’epoca del Medioevo: il nomadismo, le usanze e i costumi ‘diversi’, vengono additati come prova di stregoneria e la condanna è quasi sempre la pena di morte. Durante la Riforma Protestante è l’accattonaggio ad essere posto sotto accusa. La condanna è sempre la stessa.
Soltanto durante l’Illuminismo, Rom e Sinti hanno un momento di respiro e molte delle leggi istituite contro di loro vengono ammorbidite anche se non del tutto annullate. Si costituiscono, tuttavia, i primi corpi di polizia atti a controllare tutte le minoranze etniche presenti nei vari paesi fino a quando, agli inizi del ‘900 viene imposta la schedatura di tutti i Rom e i Sinti tedeschi.
A Monaco di Baviera, il “Servizio informazioni sugli zingari” istituito nel 1899, viene convertito nel 1929 in “Ufficio centrale per la lotta alla piaga zingara”. Questo centro viene poi utilizzato dai nazisti per attingere informazioni su Rom e Sinti in modo da trovare le motivazioni scientifiche attraverso cui sarà loro possibile avvalorare la tesi che afferma che gli “zingari” non appartengono alla razza ariana e che quindi devono essere catalogati come “razza impura”.
Quando Hitler diventa Cancelliere, nel 1933, i Rom e i Sinti presenti in Germania ammontano a circa 25.000. Nel 1936 viene istituito a Berlino l’Istituto di ricerca sull’igiene razziale e la biologia della popolazione, diretto da Robert Ritter, presunto psichiatra e neurologo che da subito afferma che: “Gli Zingari risultano come un miscuglio pericoloso di razze deteriorate.” Inutile dire che la sua assistente, Eva Justin lo appoggia, dichiarando immediatamente dopo: “Rom: indegni individui primitivi.”
16295826_1437076246304768_158045848_nA questo punto ricordiamo il pugile sinto tedesco Johann Trollman, detto Rukeli (“albero”) che più volte sfida le leggi razziali tedesche, e che, nel 1933, nel momento in cui gli viene imposto di perdere un incontro contro un pugile ariano, Gustave Eder, per affermarne la superiorità fisica, si presenta in campo cosparso di farina e coi capelli tinti di biondo, ‘come un perfetto ariano’, per prendersi gioco di quell’assurda ideologia nazista. Rukeli muore nel 1943, nel campo di Neuengamme, vicino ad Amburgo, dopo aver steso in un incontro un kapò del lager. (Nel 2003 la federazione tedesca restituirà alla famiglia la sua cintura.)

Ritter afferma che sia presente, all’interno dell’organismo Rom e Sinto il ‘gene della criminalità e del pericoloso istinto al nomadismo‘. Pertanto, prevede, nel 1940, la sterilizzazione forzata di tutti i nomadi tedeschi che vengono costretti, molto spesso attraverso minacce e torture, a firmare il consenso per l’operazione. Non risparmia a tale efferatezza nemmeno le donne già incinte, destinate a morire durante l’intervento, praticato, in ogni caso, senza alcuna misura di sicurezza e in condizioni igienico-sanitarie terribili.

In seguito la richiesta di sterilizzazione di Ritter viene estesa a tutti i bambini che hanno superato il dodicesimo anno di età e ripresa all’interno dei campi di concentramento, in particolare ad Auschwitz e Birkenau, dove sono presenti gli Zigeunerlager, ossia particolari porzioni di campo adibite alla popolazione Rom e Sinta (in tedesco Zigeuner significa, appunto, ‘Zingaro’).

A proposito di questi campi, è bene ricordare il loro ‘primo prototipo’, ossia il ghetto di  Łódź, il secondo per grandezza in Polonia, inizialmente destinato soltanto agli Ebrei e che poi conta anche circa 5.000 internati tra Kaldaresh, Lovari e Sinti. Più di 2.000 di loro, bambini.

Dopo pochi mesi dall’apertura, nel ‘campo degli zingari’ scoppia un’epidemia di tifo a causa delle pessime condizioni igieniche e della mancanza di cure mediche. È  allora ordinato al dipartimento di sanità del ghetto di inviare medici ebrei, il cui compito, però, non era quello di curare i malati, bensì di firmare certificati di morte che accertino i decessi per malattia. In realtà oltre ai morti di tifo, molti cadaveri portano i segni dell’impiccagione: il Kripo infatti ordina ogni giorno agli stessi internati di impiccare i propri cari nella fucina del campo.
Il ghetto di Łódź viene liquidato nel 1943, quando tutti i superstiti sono trasportati nello Zigeunerlager di Auschwitz.

Secondo le testimonianze, lo Zigeunerlager è regolato in modo diverso dagli altri campi. Le famiglie Rom e Sinte non vengono divise come avviene per gli altri internati e non partecipano ai gruppi di lavoro solitamente obbligatori. Questo, secondo le SS, alimenta l’illusione degli internati Rom e Sinti di vivere in una condizione di privilegio rispetto agli altri prigionieri e smorza così in loro la spinta alla rivolta. In compenso, tuttavia, lo Zigeunerlager è completamente lasciato a se stesso: niente cibo, niente medici, niente di niente. Le epidemie proliferano e l’unica ‘cura’ destinata ai malati sono le camere a gas. Secondo i dati il livello di mortalità infantile nello Zigeunerlager è il più alto di tutto il campo. E questo anche a causa degli esperimenti del tristemente noto Mengele, il quale sembra prediligere i bambini Rom e Sinti, per la loro presunta appartenenza alla razza pura degenerata. Per questo sono sottoposti a specifici esperimenti genetici. Mengele ordina di far filmare Rom e Sinti durante le loro giornate, al pari di animali allo zoo, e fa loro visita regolarmente nello Zigeunerlager. I bambini che fino a quel momento risiedono nel kinderblock sono spostati in un blocco più vicino al laboratorio di Mengele, mentre le sperimentazioni avvengono nella baracca adibita alla sauna.
Barbara Richter, allora bambina nello Zigeunerlager, sottoposta ad esperimenti sul vaccino per la malaria, ricorda così la sua tragica esperienza: “ Il dottor Mengele mi ha presa per fare esperimenti. Per tre volte mi hanno preso il sangue per i soldati. Allora ricevevo un poco di latte e un pezzetto di pane con il salame. Poi Mengele mi ha iniettato la malaria. Per otto settimane sono stata tra la vita e la morte, perché mi è venuta anche un’infezione alla faccia.”

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Vengono condotte prove antropometriche, esperimenti sull’ereditarietà per attestare la superiorità della razza ariana, fino ad arrivare agli scambi di sangue tra individui. Nel caso dei gemelli tutte le sperimentazioni per essere valide devono terminare con il decesso contemporaneo di entrambi, che avviene con un’iniezione di fenolo nel cuore in modo da facilitare l’esame post-morte degli organi interni.
Nel 1944 si registra la prima rivolta di Rom e Sinti internati a Birkenau.
Prima della liquidazione degli zingari di Birkenau, pianificata per il maggio del 1944, vengono trasferiti negli altri campi del Reich tutti quelli ancora idonei a lavorare. Ma l’allora lager führer Georg Bonigut avverte gli internati Rom e Sinti dell’imminente arrivo delle SS. Così il 16 maggio questi, organizzandosi e munendosi con qualsiasi attrezzatura possa essere usata come arma di difesa, riescono momentaneamente a contrastare le SS.

La rivolta, tuttavia, viene repressa nel sangue e tutti gli internati dello Zigeunerlager sono spediti nelle camere a gas. E’ la notte del 2 Agosto 1944, quella che gli Ebrei italiani testimoni descrivono come una delle più tristi.
Gli zingari erano coloro che suonavano, cantavano, e che con le voci dei propri bambini regalavano un po’ di vita al campo; dopo la loro eliminazione il lager cade nel silenzio.

In Italia, la persecuzione di Rom e Sinti ha inizio già dal 1922, quando vengono imposti alle carovane nomadi tempi e percorsi prestabiliti dalle autorità: qualunque Rom o Sinto trovato senza documenti o fuori da questi tempi e percorsi, viene arrestato. Le pene sono ancora più dure per i Rom ‘stranieri’, ossia quelli in fuga dalla Jugoslavia occupata e, in generale, si acuiscono ulteriormente dopo l’emanazione delle leggi razziali.
Vengono costruiti, sul territorio italiano, numerosi campi di concentramento per la popolazione Rom e Sinta: ad Agnone, nel Convento di San Bernardino, in Sardegna a Perdasdefogu, nelle province di Teramo, a Tossica, a Campobasso, a Montopoli di Sabine, nella provincia di Roma a Viterbo e Colle Fiorito e nelle isole Tremiti. In vista dell’arrivo degli alleati, molti di questi campi vengono smantellati e le testimonianze a riguardo recuperate solo molti anni dopo da sopravvissuti, come Milka Emilia Goman che, nel 2005 è tornata ad Agnone, dove era stata detenuta tra il 1940 e il 1943, per raccontare la sua esperienza.
Afferma, infatti: “Sono nata nel 1920. Da bambina sono vissuta in Croazia, poi sono entrata in Italia con i miei genitori. Dopo un po’ ci hanno preso e ci hanno buttato nel campo di concentramento di Agnone, in provincia di Campobasso. Sono stata prigioniera tre anni.”

Basilare e da ricordare, è stato, anche il contributo da parte di Rom e Sinti nella Resistenza, in Italia come nel resto dell’Europa: la conoscenza approfondita dei territori, la capacità di lavorare in gruppo e la loro forza furono fondamentali per molte realtà partigiane.

Si conta che furono oltre 500.000 i Rom e i Sinti che trovarono la morte nei campi di concentramento, ma sono varie le fonti che arrivano a contarne più di 800.000.
La tradizione orale tipica della cultura di Rom e Sinti e la distruzione dei documenti che ne registravano la presenza nei campi da parte delle SS, hanno reso difficile tessere un quadro preciso del Porrajmos, fino a quando, come già detto, l’attenzione degli storici e degli studiosi e le prime testimonianze scritte dei sopravvissuti, non hanno consentito una ricostruzione sempre meno lacunosa.
Una delle poche certezze riguardo alle cifre è che dei 22.000 internati a Birkenau, più di 20.000 furono uccisi nelle camere a gas.

Ma la memoria non si riduce a meri numeri. Ad oggi, le testimonianze del Porrajmos si stanno lentamente e faticosamente facendo strada, ma il silenzio da smantellare è ancora ben radicato nella volontà collettiva di ‘ricordare solo ciò che è comodo’.
Basti pensare a come venivano descritti Rom e Sinti nei documenti nazi-fascisti, ossia “asociali, ladri, criminali, stranieri, impuri, non integrabili.”
Basti pensare che sono gli stessi termini con cui anche oggi, in Italia soprattutto, si sente parlare di loro.
Basti pensare che la memoria non è un fiume che si esaurisce, anzi, è proprio quando viene interrotta, che nel suo letto si accumulano odio, ignoranza, violenza e ci ritroviamo di fronte alle stesse storie, sempre invariate, alle identiche persecuzioni, succubi della paura, del riflesso di noi stessi negli occhi degli ‘altri’.
Agli stessi tanti, piccoli, quotidiani Porrajmos.

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MorenaFlame

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