Wild, il viaggio di una donna

“Oggi una ruspa ha estratto da un mucchio di terra franata una bottiglia ambrata, perfetta, una cura vecchia di cent’anni per la febbre o la malinconia un tonico per vivere su questa terra. Oggi leggevo di Mary Curie:è morta donna famosa negando le sue piaghe negando che le sue piaghe avessero la stessa origine della sua forza.” Charyl Strayed

Camminare, sudare, macinare chilometri  attraverso paesaggi ostili e deserti.

Solitudine, introspezione e fatica.

Dolore fisico per elaborare quello interiore, quello di un’anima ferita: l’anima di Charyl, giovane donna della provincia americana, con una vita disastrata alle spalle, fra cui il dolore per la morte della madre, a cui si aggiungono la dipendenza da eroina e da  rapporti sessuali compulsivi con sconosciuti.

Un film duro e poetico allo stesso tempo, tratto dalle memorie di Charyl Strayed affidate alla sceneggiatura di  Nick Hornby, per la regia Jean-Marc Vallé, il regista di Dallas Buyers Club. Interpretato ottimamente dall’attrice Reese Witherspoon.

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Cheryl decide di affrontare uno dei percorsi di trekking più affascinanti ed estenuanti: la Pacific Crest Trail, dal Messico al Canada per 4000 km, a piedi e senza particolare allenamento. La prima inquadratura ce la fa vedere spossata, seduta sulla  roccia di un crinale scosceso in mezzo alle montagne. Ha i piedi martoriati, si stacca un unghia sanguinolenta, e urla con tutto il fiato che ha in corpo.

Il suo è un grido liberatorio, disperato, che rimbomba nel paesaggio deserto, in cui solo la natura inghiotte le sue lacrime, in cui solo la sfida che ha lanciato a se stessa le permette di continuare.

Procede, giorno dopo giorno, spingendo la sua resistenza fisica al limite, e attraverso i flash back inseriti da Vallé si svelano i motivi che l’hanno portata ad intraprendere il viaggio. Emerge la sofferenza per la perdita della madre a causa di un tumore fulmineo, interpretata da una Laura Dern emozionante, vittima di un marito manesco che ha lasciato la famiglia, e che lei ha tirato su da sola. Una figura materna protettiva, disarmante nella sua forza e nella sua generosità di cuore, che ha sempre cercato di infondere coraggio a Charyl  e al fratello minore nella loro esistenza contraddistinta dalla precarietà economica.

La reazione di Charyl alla sua scomparsa: droghe pesanti,  rapporti sessuali continui con sconosciuti che hanno mandato a pezzi il suo matrimonio. Il buttarsi via fino a perdere la cognizione di sé, una degradazione che le ha fatto toccare il fondo, fino a decidere di lasciare ogni cosa alle spalle intraprendendo un viaggio che assomiglia di più a un pellegrinaggio, nell’analisi di ciò che resta di se stessa per poter avere l’energia necessaria per ricominciare.

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Non si tratta della ricerca di un connubio con la natura quella di Charyl, il cui cognome, Strayed, significa “randagio” e su cui lei ironizza: “che cosa posso aspettarmi con un cognome così?”, ma di un percorso spirituale, in cui l’esigenza di allontanarsi da tutto e da tutti hanno come tappa fondamentale quella di trovare ciò che sente di aver perso, di “ripulire” ciò che è stato imbrattato del suo io interiore.

Cerca il coraggio di affrontare se stessa e i suoi fantasmi, e nelle tappe dei sentieri lascia i segni del suo passaggio inserendo nelle box  dei punti di ristoro disseminati lungo il tragitto, biglietti ripiegati con cura in cui riporta le frasi tratte dai libri che più ama:

“Se il coraggio ti  è negato, và oltre il coraggio. Emily Dickinson e Charyl Strayed”

E di coraggio ne ha avuto tantissimo: ha vinto la sfida, compiendo tutto il tratto di 4.000 km, superando gli ostacoli, la solitudine e la stanchezza fisica. Soprattutto ha vinto la battaglia con se stessa, trovando il coraggio di perdonarsi per gli errori commessi e la forza di ricominciare una nuova vita.

Una storia vera, tragica nella sua essenza, straordinaria per la capacità della protagonista di affrancarsi dall’autodistruzione a cui stava per soccombere. Un film intenso, ben interpretato, con paesaggi mozzafiato, calato in una realtà estraniante ed emozionante, in cui non si può non provare solidarietà e tenerezza per quella ragazza esile con uno zaino enorme sulle spalle, in cui oltre ai viveri, trovano spazio i libri dai quali non si separa mai.

Silvia Lorusso