Sylvia Plath: un cavallo da corsa in un mondo senza piste

 “Mi sentivo ed ero un libro con righe chiare di parole sensibili e taglienti, nessuno sapeva intravederne le fragilità, si pungevano e andavano via. Sono sempre stata e mi son sempre sentita come un libro aperto, circondato da analfabeti”.

Sylvia Plath la “conobbi” per caso durante un giornata uggiosa. Ero in libreria a caccia di novità e trovando la commessa intenta nel riordinare gli  scaffali le chiesi scherzosamente : “Consigliami un libro che non ti tirerò in testa”. Senza alcuna esitazione mi mise fra le mani “La campana di vetro”.

Fu così che, io e Sylvia, ci conoscemmo e con il tempo diventammo care amiche.

Se oggi fosse ancora viva, circondata dall’amore dei suoi cari, in mezzo a nipotini festanti e lei, con il suo dolce sorriso, qualche ruga nel viso, i capelli  bianchi meticolosamente raccolti e intrecciati, spegnerebbe la sua 83esima candelina. Purtroppo decise di porre fine alla sua vita all’età di 31 anni lasciando alle sue poesie e a suoi scritti l’arduo compito di raccontarci i suoi sentimenti, gli stati d’animo e di trasmetterci la sua straordinaria sensibilità. È difficile raccontare la vita di Sylvia, rileggere i suoi diari ricolmi di sentimenti contrastanti che ti entrano dentro l’anima, ti devastano e ti sconvolgono.

Sylvia Plath
Sylvia Plath

Sylvia nacque il 27 ottobre 1932 a Jamaica Plain, un sobborgo di Boston. La madre, Aurelia Schober,   apparteneva ad una  famiglia austriaca emigrata nel Massachusetts; il padre, Otto Emil Plath, era uno stimato entomologo e linguista. Si incontrano durante un corso di tedesco alla Boston University e decisero di sposarsi nel gennaio del 1932. Nell’aprile del 1935 nasceva il fratello di Sylvia, Warren Joseph. Poco tempo dopo, Otto Plath si ammalò di diabete mellito e rifiutò ogni tipo di cura. Nel 1940 fu costretto a farsi amputare una gamba e morì poco tempo dopo in seguito a delle complicazioni.

La morte del padre segnò profondamente la vita di Sylvia, la quale dissi che per lei rappresentò la fine della sua infanzia e di ogni felicità.

Sylvia soffrì durante tutta la sua vita adulta di una grave forma di depressione ricorrente che la portò più volte a tentare il suicidio fin quando, ahimè, le riuscì.

Sylvia Plath

Il suo fu un talento precoce, fin da piccola scriveva versi e le sue prime poesie furono pubblicate in una rivista scolastica. A diciotto anni, dopo 49 rifiuti, pubblicò un racconto: “E l’estate non tornerà di nuovo” (And summer shall not come again).

Nel mese di settembre del 1950, grazie a numerose borse di studio, entrò come matricola allo Smith College. Nel suo diario più che raccontare questo periodo, scrive delle “annotazioni” nelle quali, da un lato traspare il suo essere fortemente sotto pressione per poter mantenere le borse di studio e una media alta, dall’altro è evidente il desiderio ardente di essere socialmente accettata soprattutto dal sesso opposto, nonché ovviamente la sua grande passione per il lavoro creativo.  Nell’estate del 1952, alla fine del secondo anno di college, trovò lavoro come cameriera ai tavoli presso il Belmont Hotel di Cape Cod. Si divertì enormemente ma il duro lavoro la fece ammalare e fu costretta a rinunciare al posto e a tornare a casa: un decisione che in seguito avrebbe rimpianto. Tornata a casa lavorò in qualità di bambinaia  presso i Cantor, famiglia alla quale si affezionò molto. Nell’agosto del 1953 vinse una borsa di studio ed un soggiorno di un mese a New York come guest editor della rivista femminile “Mademoiselle” per la quale, un anno prima, pubblicò un racconto, Domenica dai Minton.

Il 24 Agosto del 1953 tentò il suicidio a casa: scese in cantina con un flacone di 50 pillole  e dell’acqua. Rimase lì per tre giorni, finché non la ritrovano i familiari. Vomitò tutto riuscendo così a salvarsi. Venne ricoverata in un istituto psichiatrico, il McLean Hospital. La ripresa si basò su terapie di elettroshock e insulina, ma è probabile che l’elemento fondamentale fosse il rapporto con la dottoressa Ruth Beuscher. Nel dicembre del 1953 fu dimessa dall’ospedale.

Questo episodio venne descritto ne la  La campana di vetro (The Bell Jar), il suo unico romanzo, che venne pubblicato nel 1963, un mese prima del suo suicidio, sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas. Il libro, fortemente autobiografico, è la storia di Esther, diciannovenne di provincia, che si avventura in una grande città dopo aver vinto un soggiorno offerto da una rivista di moda. Intorno a lei , come una campana di vetro, una specie di involucro soffocante  che le toglie l’aria e soffoca ogni sua capacità di reazione l’America spietata degli anni 50 ,  ipocrita, maccartista e ottusamente benpensante,  che la fa sentire “come un cavallo da corsa in un mondo senza piste”. La storia narra con stile limpido e teso e con una semplicità agghiacciante le insipienze, le crudeltà incoscienti, i tabù assurdi capaci di spezzare qualunque adolescenza presa nell’ingranaggio stritolante di una normalità che ignora la poesia.

La Campana di vetro
La Campana di vetro

Ritornò allo Smith College nella primavera del 1954. Passò l’estate seguente alla Harward Summer School studiando tedesco e vivendo con alcuni amici dello Smith. Il suo ultimo anno di college fu un vero successo: vinse premi, vendette poesie. Si diplomò nel 1955 e ricevette una borsa di studio Fulbright per studiare al Newnham College, a Cambridge. Si buttò con grande entusiasmo in questa nuova esperienza anche se le fu molto difficile ripetere i successi ottenuti precedentemente.  Continuò a scrivere poesie, pubblicando a volte le sue opere sul giornale studentesco Varsity.

A Cambridge, inoltre, conobbe il poeta inglese Ted Hughes. Si sposarono il 16 giugno 1956.

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Trascorsero il periodo dal luglio 1957 all’ottobre 1959 vivendo e lavorando negli Stati Uniti. Sylvia Plath insegnò allo Smith College, ma quando tornò nella sua vecchia scuola come insegnante rimase colpita dalla freddezza con cui fu accolta. Inoltre, nei suoi diari, esprime i suoi dubbi sulla sua capacità di insegnare bene quanto sperava e spesso i suoi impegni la sopraffacevano fisicamente.

Ogni giorno registrerò un ostinato passo avanti o un momento significativo. Amo il materiale di lettura. Pian piano devo imparare a presentarlo controllando il dibattito in classe: devo scacciare l’idea insinuante della bestia impaurita dentro di me, elaborato simbolo di fuga, e affrontare le giornate con forza mettendole in riga. –scriveva nei suoi diari- Basta cedere alla disperazione, lamentarsi, lagnarsi: al dolore si finisce per abituarsi.  E fa male. Fa male non essere perfetti.  […] Questo mese finisce il mio primo quarto di secolo, vissuto all’ombra della paura: paura che mi venisse a mancare una qualche perfezione astratta. Ho spesso lottato, lottato e conquistato, non la perfezione, ma l’accettazione del mio diritto di vivere nei miei termini umani, imperfetti.

Successivamente si trasferirono a Boston dove Plath partecipò a dei seminari di “creative writing” con Robert Lowell. Questo corso ebbe profonda influenza sul suo stile. Venuti a conoscenza del fatto che Sylvia era incinta, ritornarono in Gran Bretagna e decisero di vivere a Londra. Frieda Rebecca nacque in casa, nell’aprile del 1960.

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Successivamente firmò un contratto con la Heinemann per la pubblicazione della sua prima raccolta di poesie, Il Colosso, che uscì ad ottobre dello stesso anno. All’inizio del 1961 ebbe un aborto, numerose poesie sono dedicate a quest’evento. Durante la primavera\estate, lavorò al su citato romanzo, con l’aiuto di una borsa della Eugene F. Saxton Foundation. Alla fine dell’estate del 1961 i coniugi si trasferirono nel Devon, dove nel gennaio del 1962 venne alla luce il loro secondo figlio, Nicholas e Ted si innamorò di Assia Wevill, moglie di un amico poeta, con la quale iniziò una relazione. Sylvia scoprì tutto e nella poesia ‘Parole sentite, per caso, al telefono’ descrive il momento della fatidica rivelazione ( Assia telefona per parlare con Ted, ma alla risposta di Sylvia, simula una voce maschile così goffamente da farsi scoprire)

“… che cosa sono queste parole, queste parole?
Cadono con un plop fangoso.
Oh dio, come farò a pulire il tavolino del telefono?….
….Ora la stanza sibila. Lo strumento
ritira il suo tentacolo.
Ma la poltiglia che ha deposto cola nel mio cuore. È fertile.
Imbuto di sozzura, imbuto di sozzura – ….”

Sylvia cacciò il marito di casa e i due si separarono. Ritornò a Londra con i figli, Frieda e Nicholas. Affittò un appartamento in una casa dove aveva abitato William Butler Yeats; ne fu estremamente contenta e lo considerò un buon presagio quando cominciò il procedimento legale per la separazione.

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Iniziò a scrivere febbrilmente e ad un’amica confidò:

“Roba incredibile, era come se la vita da casalinga mi avesse soffocata.  Sentivo come un tappo in gola. Ora che la mia vita domestica è nel caos, faccio vita spartana, scrivo con addosso la febbre alta e tiro fuori cose che avevo chiuse dentro da anni, mi sento sbalordita e molto fortunata”.

Nell’autunno dello stesso anno portò a termine la sua opera più importante, le poesie di Ariel, scritte in un flusso di energia incandescente, trenta in un mese; la prima versione uscì di getto, ma lei lavorò meticolosamente su ognuna in un secondo tempo. Nessuno aveva visto queste poesie, ma lei sapeva con assoluta certezza di aver compiuto un salto di qualità. Il 16 ottobre 1962, nel pieno di un mese straordinario, scriveva alla madre: “Sono una scrittrice geniale; me lo sento. Sto scrivendo le poesie più belle di tutta la mia vita;  mi renderanno famosa…”.

L’uscita del romanzo sembrò l’avvio di  una nuova rinascita:

“Vivere separata da Ted è meraviglioso, non sono più nella sua ombra ed è fantastico essere apprezzata per me stessa e sapere quello che voglio. Magari chiederò anche in prestito un tavolo per il mio appartamento all’amica di Ted… I miei bambini e scrivere sono la mia vita, e che loro si godano pure le loro storie d’amore e i loro party, pfui!”

Ma lo spettro della depressione in realtà non l’aveva mai abbandonata. L’11 febbraio 1963 Sylvia Plath si alzò all’alba, come al solito, portò la colazione  nella stanza dei figli, spalancò la finestra della loro camera e sigillò le fessure della porta con nastro adesivo ed un asciugamano. Tornò in cucina, dove sigillò meticolosamente  tutte le fessure, accese il gas e infilò la testa nel forno.

Fu così che, in quella che  tanti vedono come una disperata richiesta di aiuto, morì.

Ted Hughes, nella prefazione dei diari di Sylvia ( o almeno, in quella parte che ha deciso di farci arrivare dato che distrusse diverse pagine), descrisse la moglie così:

Sylvia Plath era una persona dalle molte maschere, sia negli scritti sia nella vita privata. Alcune consistevano in tipici travestimenti esteriori, meccanismi difensivi, involontari. Altre erano pose deliberate, tentativi di trovare la chiave di uno stile qualsiasi: le facce visibili dei suoi io minori, falsi o provvisori, personaggi secondari del suo dramma interiore. Sebbene abbia vissuto con lei ogni giorno per sei anni, e poche volte mi sia allontanato per più di due o tre ore di seguito, non l’ho mai vista esternare il suo vero io a nessuno; salvo, forse, negli ultimi tre mesi di vita. […] Quando il vero io trova la parola e riesce ad esprimersi, allora accade qualcosa di straordinario: come Ariel.

Robert Lowell, nell’introduzione all’edizione originale del volume Ariel, scrisse:

In queste poesie, scritte negli ultimi mesi della sua vita e spesso tumultuosamente composte in ragione di due o tre al giorno, Sylvia Plath diviene se stessa, divine un’entità immaginaria, appena creata, creata fieramente e sottilmente… non un individuo, né una donna, né certo un’altra <<poetessa>>, ma una di quelle grandi eroine classiche, più che reali ipnotiche. […] E tuttavia le poesie di Sylvia Plath non sono la glorificazione di un’esistenza selvaggia e dissoluta, l’esistenza del poeta <<maledetto>>, lieto di distruggersi in cambio di pochi anni di ininterrotta intensità. […] Questa poesia di vita non è come una corsa affannosa; dice semplicemente che la vita, anche quando è disciplinata, non vale la pena di essere vissuta. È straziante, riandando al passato, capire che il segreto  dell’ultima irresistibile fiammata di Sylvia Plath è nascosto nella discrezione, nel garbo estremo della sua penosa timidezza.

Una settimana prima dell’estremo gesto scrisse la sua ultima poesia:

ORLO

La donna è infine perfetta.

Il suo corpo

Morto porta il sorriso del compimento

L’illusione di una greca necessità

Fluisce, nelle pieghe della sua toga,

I suoi piedi

Nudi sembrano dire:

Abbiamo camminato tanto, è finita.

Ogni bimbo morto, riavvolto, bianco serpente

Uno ad ogni piccola

Brocca di latte, ora vuota

Li ha piegati

Di nuovo nel corpo di lei come petali

Di una rosa si chiudono quando il giardino

S’intorpidisce e odori sanguinano

Dalle dolci, profonde gole del fiore notturno.

La luna non ha nulla di cui essere triste,

fissando dal suo cappuccio di osso

è abituata a questo tipo di cose.

Le sue macchie nere crepitano e tirano.

Bibliografia:

  • Diari Sylvia Plath (edizione Adelphi)
  • Lady Lazarus e altre poesie- Sylvia Plath
  • La campana di Vetro- Sylvia Plath

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